venerdì 7 settembre 2012

TRAVAGGHIAVUMU A' SINCHITI





TRAVAGGHIAVUMU ‘A SINCHITI Cronaca semiseria dal 1968 agli anni ‘90 di Armando Carruba Siracusa 28 settembre 2001


UNO SGUARDO AL PASSATO PER PROIETTARSI NEL FUTURO Il ricordare è, forse, la più intrinseca facoltà dell’uomo poiché nell’inserire la marcia indietro del pensiero, è il cuore che affianca la mente; ed è per questo motivo che ho colto al volo quel pulviscolo di memorie del tempo andato. Negli anni cinquanta a Siracusa il piazzale Marconi, meglio conosciuto come puzzu ‘ngigneri, antica piazza d’armi, che per la sua vastità era adibita anche a fiera del bestiame, ove esisteva un abbeveratoio progettato dall’ing. Ignazio Del Pozzo e costruito nel 1721 dal capomastro Giuseppe Branciforte, la mattina all’alba si riempiva di lavoratori della terra che aspettavano un cenno del padrone per guadagnarsi onestamente la giornata. E fu negli anni cinquanta che quella piazza cominciò a svuotarsi, era nata l’industria che chiedeva braccia e questi lavoratori accettarono di buon grado un lavoro che permetteva loro un reddito sicuro mensile. Quasi nessuno possedeva l’automobile, i più fortunati la motocicletta, i più la bicicletta; allo stabilimento di Priolo andavano con i pullman della ditta Golino, che facevano capolinea alla Marina e percorrevano tutto il corso Umberto I°, prendendo gli operai alle fermate, quella dei Villini (Foro Siracusano) contava il maggior numero di persone. Pullman affollatissimi, chiamati “cca funcia” perché del tipo di quelli che si vedono in certi film bianco e nero degli anni quaranta; a volte facevano sciopero o si guastavano ed erano cavoli amari, in seguito anche l’AST effettuò questo servizio. La ditta Golino ha smesso da tempo e l’AST ha cancellato la linea, a lavorare oggi si va in automobile o con pullman di cooperative; noi ragazzini commiseravamo quei lavoratori che avevano accettato un posto di lavoro dove la puzza era sovrana, anche se il detto “chi disprezza compra” in questo caso si confermò più che mai veritiero, in quanto la maggioranza di noi finì con il lavorare in fabbrica che ha dato tanto all’economia del territorio; anche se da troppo tempo, non si fa altro che parlare di rami secchi, tagli del personale, autunni caldi e via di questo passo. La vita in fabbrica è stata sempre scandita, da modi di dire, da comportamenti, da momenti che…una domanda che mi viene rivolta spesso da chi è già in pensione è: - ma ssì ancora ddà? (ma sei ancora in fabbrica?). Ho firmato la mia uscita per fine settembre 2001, adesso quando incontro i citati personaggi alla domanda – ssì ancora dda’ – rispondo – ancora per poco a settembre vado in pensione! – volete sapere la maggior parte cosa mi risponde? – ah sì? Appoi t’annoi! Questo per sottolineare, qualora ce ne fosse bisogno, come tutti i lavoratori sono legati a questa realtà industriale, lo conferma il fatto che a distanza d’anni dalla loro uscita non perdono occasione per parlare del tempo andato. L’occasione la colgo anch’io per salutare tutti, sono soddisfatto dei rapporti umani intercorsi in questi 33 anni, mi scuso con coloro i quali ho avuto… scambi d’idee, non ricordo motivi seri ma solo stupidaggini, il mio augurio che tutti indistintamente possono andare in pensione felici come me. Personalmente l’inizio dell’industrializzazione nel siracusano l’ho immaginata così… E FU COSI’ Un bel giorno, uno di quei giorni segnati dall’oroscopo del giorno dove si dice che tutto andrà male ed invece ti va tutto a gonfie vele, Angelo Moratti, bonarma, conosciuto per aver realizzato la grande Inter stile anni sessanta che vinceva dintra e fora Italia uno di tutto, si susiu di bona matina, erano le undici meno un quarto e ‘na gazzosa, e consultandosi tra sé e sé nel profondo della propria mente, si sparò questo dialogo solitario: Allura, Angileddu beddu, darò il là per la realizzazione di una grande industria! Scusa, Moratti col filtro, disse a se medesimo, parramu ‘a lingua italiana, dove e unni darai questo là, e si complimentò con se stesso medesimo per la domanda troppo intelligente. Come dove? là dove finisce lo stivale chiamato Italia, là dove c’è il sole, il cielo e il mare, laddove le lumache si chiamano vavaluci e le mangiano, e gli abitanti medesimi terroni! Minchiocchiti Angileddu, in Sicilia? Bravo mi complimento, bravo! In Sicilia, e siccome dda’ la manodopera poco custa, questa industria la realizzerò nella baia d’Augusta! – e dalla gioia si battè le mani da lui stesso medesimo. E fu così che il petroliere Angelo Moratti nel 1949 fu di parola, andò in Texas nta pizzaru americano, ci stutò na para di cambiali post datati ad interesse zero agghiacciato, e portò nella baia d’Augusta ‘na para d’impianti di terza manu, ca l’americani, detto tra noi, avevano ‘a ghittari, realizzando la Rasiom! Ora si sapi ca un cristiano nun po’ fari nenti di nenti ca subito a morti subitanea ci sono gli invidiosi. E siccome si dice che se l’invidia fosse febbre tutto il mondo ce l’avrebbe, da noi diciamo… fussi vaddira fussimu tutti vaddarusi, anche altri industriali o presunti tali, capitalisti, pagnottisti, cu si visti visti, visto che le cose ad Angileddu beddu andavano a gonfie vele, pensarono anch’essi di fare una calata in Sicilia, in questa bella terra di sole, di mare, di cielo, in questa terra di vavaluci e crastuna, e fu così che tutto d’un colpo apocalittico, torri di ferro sostituirono campagne d’aranci e mandarini, e lingue di fuoco illuminarono il cielo sinora anonimo di Priolo piccola frazione di Siracusa. L’industrializzazione nell’area siracusana era decollata, i braccianti agricoli divennero operatori d’impianto, di conseguenza lasciarono le loro zappe e impugnarono strangolini per aprire e chiudere valvole, gli abitanti di Priolo cominciarono a trasformare le loro quattro casupole in pensioni familiari per lavoratori provenienti da tutti le parti dell’isola e dal nord Italia, e finalmente ma soprattutto puntualmente arrivava per loro ogni quindici giorni una busta paga sicura, e tutti a quell’epoca erano felici e contenti…e a me non resta altro che continuare a raccontare gli avvenimenti. LA CLASSE OPERAIA VA… In Sinchiti, deformazione dialettale di SINCAT Società Industriale Catanese, società per azioni, sede legale Palermo, capitale sociale £ 60.000.000.000 interamente versato anno 1968, si veniva assunti tramite un semplice colloquio. Il candidato inviava domanda di assunzione all’Ufficio del Personale e, anche se adesso può sembrare una favola a lieto fine, celermente lo stesso veniva invitato a presentarsi in Stabilimento. L’incontro consisteva in una spassionata conversazione, per essere assunti in qualità d’operaio, il candidato non doveva essere in possesso di alcun diploma (i diplomati per legge venivano assunti in qualità d’impiegati) e una domanda usuale consisteva nel chiedere all’aspirante dipendente, perché desiderava lavorare in fabbrica, seguiva una prova matematica consistente in una divisione con la virgola, e giusto o errato fosse il risultato, il tutto si concludeva con una stretta di mano ed un augurio di reciproca collaborazione. In seguito furono privilegiate le assunzioni di giocatori di calcio che ravvivarono con la loro presenza i vari tornei aziendali che si svolsero in quel periodo, seguiti da numeroso pubblico in tribuna. C’era soltanto un piccolo scoglio da superare, consistente in informazioni a carattere personale che l’Azienda si riservava di prendere prima dell’assunzione; non erano altresì graditi cattivi soggetti o lavoratori con spiccate idee di sinistra, in parole povere, di operai comunisti manco a parlarne. Queste informazioni venivano prese, ironia della sorte, presso la Parrocchia d’appartenenza del candidato e, vuliti ca Patri Parroco facesse perdere l’occasione di un posto di lavoro a patri di famigghia, che se non frequentavano la casa di Dio, e di idee di sinistra, si trattava pur sempre di gente onesta e pura come l’acqua sorgiva? Quindi, senza tema di smentita, si può affermare che con la benedizione di Patri Parroco, la “Classe Operaia” prima d’entrare in Paradiso, trasiu ‘a travagghiari ‘a Sinchiti di Priolo. UNNI TRAVAGGHI? Dopo le assunzioni a morti subitanea, cioè a dire appena messo il piede in fabbrica abbiati in reparto senza una teorica preparazione, l’Azienda preparò una serie di corsi della durata di sei mesi per operatori d’impianto. Durante quel periodo, anni 1967/68, la paga giornaliera per il corsista era di £ 800 più il buono pasto mensa; finito il corso si veniva assunti in qualità di manuali specializzati e, per legge, dopo sei mesi, passati alla categoria di operai qualificati. Nel 1967 al CIAPI di contrada Biggemi, fu dato il via al primo corso di congegnatore meccanico, seguiti da altri; in sintesi ‘u travagghiu mancava solo a colui il quale lavoro non ne mangiava. Il sindacato con il maggior numero d’iscritti era la CGIL, per la ragione che era pressoché impensabile iscriversi alla CISL, in quanto la nota vicinanza di questo sindacato alla Democrazia Cristiana, partito politico che governava il paese, e che veniva aspramente criticato e detestato dai lavoratori; e più lo si detestava e più lo si votava difatti sempri acchianava! Non si è mai capito, visto e considerato che tutti si lamentavano della DC, come potesse raccogliere tutti quei consensi. I detrattori dicevano che a votare Democrazia Cristiana erano i soliti preti, le solite monache e ‘i fimmineddi ‘i chiesa, ma questa versione nun s’ha calava nuddu mancu ccu nu bicchiere d’acqua. La UIL era vista come un sindacato che nun era né carni e mancu pisci, difatti i detrattori ne parlavano come un sindacato di serie B, vicino alla Democrazia Cristiana quanto al partito Socialista. A questo occorre tenere ben presente, che durante gli anni sessanta il fare sindacato non era tutto rose e fiori, ma più delle volte cavolacci amari; quindi se è giusto dare a Cesare quel che di Cesare è, altrettanto sacrosanto è ricordare i grandi meriti che hanno avuto i sindacalisti di UIL, CISL e CGIL che operarono in quegl’anni di transizione per l’abbattimento delle gabbie salariali, pagando a volte sulla propria pelle l’attaccamento alle proprie idee. Anni in cui era fantascienza trovare qualcuno che dichiarasse candidamente di votare DC, e quando a volte le argomentazioni dei simpatizzanti CGIL non erano condivise, si veniva investiti da quella famosa battuta durata per anni “qualunquista e fascista” che doveva così chiudere il discorso; difatti i compagni non avrebbero mai dialogato politicamente con un simpatizzante MSI, forse con un qualunquista sì, anche se a loro dire, erano sempre pronti a contestare per il piacere di farlo, ma potevano forse un giorno ricredersi. In fabbrica si lavorava a ritmo sostenuto, in alcuni posti di lavoro giornaliero, i giovani il venerdì all’approssimarsi della fine orario di lavoro, cercavano di defilarsi per non essere notati e di conseguenza chiamati per lo straordinario del sabato. Un’altra battuta famosa che ha resistito per tanto tempo e che puntualmente veniva sparata quando un dipendente Sincat incontrava qualcuno fuori stabilimento e quest’ultimo chiedeva: unni travagghi? (dove lavori?), risposta piena d’orgoglio – ‘a Sinchiti! (in Sincat!) meraviglia dell’interlocutore e successiva domanda – ma nun cc’è fetu? (ma non c’è puzza?) risposta buttata con indifferenza - Anticchia, ma dda’ intra mancu si senti (un po’ ma lì dentro non si avverte), ultima curiosità – e cchi fai? (che lavoro svolgi?) risposta micidiale e trionfante –nenti! (niente). E stando alle affermazioni dei lavoratori di quegl’anni, la Sincat ovverosia Società Industriale Catanese, andò avanti senza che nessuno facesse…niente! LA SICUREZZA Oggi si da un’importanza primaria alla sicurezza del lavoratore, l’anno scorso non si è registrato alcun infortunio e questo è motivo d’orgoglio per chi lavora in questo settore, organizzando presso la Scuola Aziendale di stabilimento incontri sempre più frequenti su questo tema. Tra le cause di un infortunio, a mio modesto parere, c’è a volte la troppa sicurezza del lavoratore nell’effettuare una manovra fatta tante e tante volte, magari senza usare i mezzi di protezione in dotazione, tanto meno la giusta accortezza di verificare che tutto sia in sicurezza. Sottolineo questo concetto, per il fatto che in questi anni, si sono verificati troppi incidenti con protagonisti lavoratori espertissimi che per un nonnulla hanno pagato un caro prezzo e a volte purtroppo con la vita. Negli anni sessanta, a volte, l’aspetto sicurezza lasciava il tempo che trovava; per fare un esempio basta ricordare i meccanici pompisti che dovevano intervenire allo smontaggio di una pompa in reparto; di regola dovevano aspettare l’elettricista di turno che levasse i relativi fusibili per scollegare il giunto pompa e intervenire meccanicamente, ma per abbreviare i tempi e soprattutto per non passare per lavativi, intervenivano ancor prima che l’elettricista fosse informato. Un altro esempio negativo, il cambio dei reversibili dell’olio combustibile al CR 1-2, su grossa tubazione situata ad una quindicina di metri d’altezza, con la tubazione stessa cosparsa d’olio. Di questa operazione se ne occupava la squadra turnista meccanica dell’officina meccanica 3, di regola avrebbe dovuto esserci un ponteggio permanente data la frequenza della manovra, in realtà era un numero da circo equestre. Desidero a questo punto ricordare un capo squadra che fu più che un fratello per la sua squadra stessa, quando capitava questo lavoro Nino Lopes, così si chiamava il nostro uomo, lo eseguiva personalmente ben sapendo della pericolosità dell’operazione. Nino si faceva tenere per i piedi e sdraiandosi sulla tubazione cominciava a svitare i bulloni da 32 con la chiave da battere; terminato il lavoro, di fronte alla squadra ammirata per la sua abilità, se ne usciva con la battuta: “mittiti i chiavi nta cassetta e jemu all’officina a farini ‘u cafè”. La sicurezza è importantissima, e quando si è invitati ad un corso presso la scuola aziendale, occorre andarci prestando più attenzione possibile, perché quello che può sembrare sciocco e banale più delle volte può essere vitale. CODIFAVA Tra i personaggi passati alla storia dell’industria priolese, sicuramente uno dei più singolari fu l’ing. Codifava! Il punto esclamativo è d’obbligo per l’estrosità del personaggio nel porsi in quegli anni in cui le barriere nell’ambito lavorativo erano altissime. Per rendersi conto dell’assurdità di certe posizioni, basti pensare ad un vergognoso cordone in sala mensa (in seguito rimosso dopo violente proteste sindacali) che serviva a delimitare un’area riservata soltanto agli impiegati. Oppure ai fattorini di piano, pronti ad essere chiamati al suono di un campanello per futili motivi, come il portare un foglio da una stanza all’altra, perché l’impiegato di turno non poteva staccarsi dalla sedia in quanto la stessa si sarebbe raffreddata. Nelle officine meccaniche, l’operaio specializzato era “’u mastru” e più delle volte rendeva la vita difficile a operai qualificati e manuali specializzati nonché a lavoratori delle ditte; in sintesi in quel clima dove l’impiegato era del tipo “nun mi tuccari ca mi scozzulu” e dell’intermedio ca nun essennu né carni né pisci, unni appoggiava ‘u sapeva iddu; l’ing. Codifava vestiva con la tuta dell’operaio comune, elmetto, guanti e spesse volte lo si vedeva in prima linea ovverosia in impianto. Gli operai lo guardavano con simpatia, sia perché lui, polentone puro cca scorcia, non guardava nessuno dall’alto in basso, e per il fatto di non pensarci due volte a redarguire qualche “nun mi tuccari ca mi scozzulu” davanti a tutti. C’era chi giurava che fosse un azionista della società, e a questa fabbrica, l’ing. Codifava ha dedicato parte della sua vita oltre il normale orario di lavoro. Era il re incontrastato del CR 1-2 ma riguardo ad aumenti di stipendi piuttosto tirato, anzi tiratissimo, mi correggo mancu ‘a parrai. Famose le sue due battute “ehi pistola!” e “mago!” a secondo naturalmente le circostanze; quando lo si vedeva venire in impianto chi poteva scappottarsela lo faceva volentieri per il semplice fatto che con lui il lavoro era assicurato. Un giorno, dopo un temporale, stava piovendo ad assuppa viddanu, cioè a dire quella pioggerellina leggera e fine ca pari ca mancu chiovi, l’ing. Codifava sempre in tuta, elmetto e guanti si portò all’altezza delle pompe dette a cavallino; un operaio, di cui taccio volutamente il nome, cogliendo secondo il suo parere un buon momento d’arruffianamento, gli si avvicinò: ‘Ngignieri, chi havi bisognu di ocche cosa? (ingegnere le occorre qualcosa?) - Come va mago? rispose il Codifava; all’operaio manco gli sembrò vero, gli brillarono gli occhi dalla gioia, si armò di tutto il coraggio civile e domestico e replicò: - ‘u sape ‘ngignieri ‘i cosi nun vanu tantu boni….Il Codifava non lo fece terminare – L’impianto pistola! Non tu, l’impianto! Prendi la pala, prendi il badile, togli le pietre scopa il reparto. Mai quell’operaio lavorò tanto sotto quella pioggerellina che cadeva leggera, con le risatine dei compagni che nascosti dietro le colonne si godevano la scena, guardandosi bene dall’intervenire. Un’altra volta in impianto il Codifava stava armeggiando una valvola, quando un operaio di una ditta gli domandò: - chiffa’ mi duni sti guanti? (me li regali i guanti?) – ma cosa dici pistola! replicò l’ingegniere – ca dammilli sti guanti ti dugnu i mei e tu ti fa conciari (dammeli i guanti ti do’ i miei e tu te le fai cambiare). L’ingegnere Codifava per fortuna non capiva il nostro dialetto, e noi facemmo fatica a far comprendere a quell’operaio che aveva sbagliato persona nel chiedere il paio di guanti. Tante storielle e tanti aneddoti sono legati a questa persona; il suo chiodo fisso era la fiaccola. Sull’autobus che da Siracusa lo portava al lavoro, all’approssimarsi della fabbrica domandava in quale direzione era rivolta la fiamma della fiaccola, e quanto era alta; anche perché era miope e voleva assicurarsi che quello che vedeva in lontananza fosse reale. Ne è passato del tempo, ma ogni qualvolta che casualmente mi capita di guardare la fiaccola, non posso fare a meno di pensare all’ing. Codifava un po’ mago e un po’ pistola, come diceva lui, ma certamente una simpaticissima persona. LO SCIOPERO Il fiume in piena della vita travolge i nostri ritmi, le nostre abitudini, tutto cambia! Quello che era ieri non è più oggi, tanto meno domani. Negli anni sessanta l’Azienda era “il padrone” e la classe lavoratrice quella operaia, dato che gl’impiegati, tranne eccezioni che non confermano regole, non aderivano agli scioperi o se la facevano perché costretti da cause di forza maggiore. Lo sciopero sindacale di quegli anni era veramente sciopero! in quanto dichiarato, attuato e soprattutto sentito con la più ampia partecipazione attiva dei lavoratori. Quando nel febbraio del 1968 fui assunto, gli anziani dello stabilimento ricordavano con orgoglio a noi novellini, d’aver preso parte ad uno sciopero durato ben diciotto giorni! Anche se alla fine dovettero mitigare le pretese e prendersi giorni di ferie per non perdere il posto di lavoro. Si scioperava per l’abbattimento delle gabbie salariali e per ottenere che la durata del periodo di malattia fosse interamente retribuito, senza che si decurtassero i primi tre giorni dalla busta paga, con la conseguenza di costringere padri di famiglia a lavorare in fabbrica anche in non perfette condizioni fisiche. Quando veniva dichiarato lo sciopero dalle Organizzazioni Sindacali, ci si preparava spiritualmente pubblicizzando il più possibile il momento di lotta. Gl’impianti non marciavano a minimo tecnico, se lo facevano a rischio della Società, non esistevano comandate ma soltanto la responsabilità morale dei lavoratori, che non è mai mancata, di fermare gli impianti e metterli in sicurezza. Si facevano i turni di picchettaggio alle portinerie, s’accendevano fuochi accatastando legna, si rideva e si scherzava per ammazzare il tempo. I crumiri, sono in effetti abitanti della Crumiria, regione della Tunisia occidentale al confine con l’Algeria. I crumiri, circa 35.000, sono noti per aver offerto, in seguito ai continui atti di banditismo e di contrabbando d’armi, l’occasione alla Francia di imporre il protettorato sulla Tunisia, (trattato di Bardo 1881) ed in seguito a questo fatto stanno ad indicare anche quei lavoratori che contrastano la riuscita di uno sciopero, o non prendendovi parte o accettando di sostituire gli scioperanti in favore dei datori di lavoro. I crumiri passavano la notte in stabilimento riposando su materassini gonfiabili, gli stessi non restituiti, che più delle volte si vedevano nelle zone balneari delineando la personalità del crumiro che oltre a tradire la causa della propria classe, approfittava dell’occasione per rubare materassini, coperte ed altro. Le lotte più accese furono nel 1969/70, quando diverse auto di crumiri cronici furono ribaltate e rovinate nel piazzale antistante la portineria. A volte si arrivò allo scontro fisico; cosicché dopo una lunga trattativa, il 1970 segna l’abbattimento delle gabbie salariali ed il riconoscimento di giuste qualifiche; ma la conquista più importante fu l’abolizione della perdita salariale per i primi tre giorni di malattia. Anni di sofferenza morale ed economica fecero sì che di questo conquistato diritto se ne fece uso ed abuso, com’è nel costume italico, anche se in seguito alla prima cassa integrazione si ridusse notevolmente sino a scomparire questa maldestra abitudine. SERVIZIO VIGILANZA Le portinerie di questa fabbrica, erano e sono controllate dal servizio di vigilanza di stabilimento, che sicuramente non si limiterà a questo servizio ma avrà altri compiti. Negli anni passati ne aveva uno ingrato, ed era quello di controllare gli operai all’uscita e nelle ore notturne. E’ risaputo che è vietato portarsi materiale appartenente alla Società, si chiama furto e chi lo fa è un signor ladro; all’uscita degli operai c’era sistemato un marchingegno con due luci, una delle quali si accendeva tramite una leva che veniva abbassata da tutti gli operai in uscita. Si chiamava decimatore, ed era solo per gli operai, le due luci erano di color verde e rosso; se si accendeva il verde l’operaio poteva passare, col rosso doveva sottoporsi ad una perquisizione personale fatta da un vigilante dentro un apposito sgabuzzino. Il rosso doveva accendersi a caso, ma non era così, lo azionava a piacimento il vigilante di turno; naturalmente i cartellini degli impiegati erano sistemati in un’altra cartelliera e gli stessi non avevano l’obbligo di passare attraverso questa forca caudina che, grazie a lotte sindacali fu eliminata. In quegli anni durante le notti, la vigilanza girava per i reparti allo scopo di pizzicare chi dormiva, e dopo il relativo rapporto, il lavoratore veniva multato di un paio d’ore di lavoro in meno nella busta paga. Come in tutte le cose, c’erano i patri di famigghia e chi invece si accaniva probabilmente per soddisfare un personale stupido sadico piacere. Quest’ultimi arrivarono perfino ad appostarsi dietro le colonne per sorprendere gli operatori d’impianto al minimo cedimento, ed entrare nelle officine e magazzini un’ora prima del cambio turno, quando si ci concedeva un po’ di riposo dopo una notte di lavoro. Questa, caccia al dormiente, durò sino a quando gli operatori d’impianto, stanchi di questa situazione si organizzarono. Una notte al mitico CR 1-2 zona calda, furono gli operatori esterni ad attendere che la vigilanza s’appostasse dietro le colonne, e quando quest’ultimi entrarono in reparto, dall’alto venne giù una pioggia di bulloni, strangolini e materiale ferroso, provocando agli sgraditi ospiti uno stato di diarrea fulminante! Questo episodio, manco a dirlo, fece il giro dello stabilimento, e nessun vigilante era più disposto ad entrare di soppiatto nei reparti, per il motivo che ogni qualvolta qualcuno si avventurava, casualmente dal cielo piovevano bulloni, strangolino e materiale vario, non si sa come. I reparti erano in regola per il fatto che gli estranei al reparto stesso, prima d’entrarvi, dovevano essere autorizzati dall’assistente in turno; logico che nel momento stesso veniva chiesta l’autorizzazione, tutto il personale era informato di stare ccu l’occhiu vivu comu ‘a sarda motta. Stando così le cose, e ripetute lotte sindacali eliminarono il decimatore e il controllo del personale dormiente o presunto tale di 3° turno, sollevando gli incolpevoli addetti alla vigilanza da questi compiti che sicuramente li squalificavano nella dignità di lavoratori. LA MENSA Il locale mensa della Sincat si trovava presso la portineria Sud, i lavoratori consumavano il pranzo giornaliero previo l’acquisto dei relativi buoni; c’era quello del primo, del secondo, la bibita, la frutta, il pane, il tutto per una cifra che superava di poco le cento lire. Potevano usufruire della mensa soltanto i dipendenti Sincat, e per far rispettare questa regola e affinché non fosse turbata la quiete dell’ora d’intervallo, stazionava in mensa un addetto del servizio vigilanza. Occorre considerare che i primi dipendenti provenivano da altre realtà lavorative: campagna, magazzini di pomidoro, segherie etc. gente abituata al duro lavoro per cui l’operare in fabbrica per loro era una passeggiata, ma allo stesso tempo soffrivano per non potere spaziare al di là del proprio posto di lavoro. Per questa ragione in mensa scherzavano tirando pezzi di pane, e alle volte il vigilante chiudeva l’occhio altre era costretto ad intervenire. Di tanto in tanto si assisteva ad un’azione a dir poco indegna, quando un operaio di qualche ditta tentava di pranzare e l’addetto al controllo, se ci garbizzava la cosa, tutto passava liscio ed inosservato, sennò invece di bloccarlo subito, gli faceva prendere le varie portate e solo quando quest’ultimo stava per gustare la prima forchettata di pasta, gli veniva chiesto d’esibire il tesserino di riconoscimento aziendale, con la conseguenza di dover lasciare tutto sul tavolo e andarsene a bocca asciutta. Terminato quel che definire pranzo era eufemismo, beata gioventù, prima di mettiri manu (riprendere il lavoro) s’organizzava una partita di pallone sotto lo sguardo divertito degli anziani, mentre sotto le scale della portineria sud, c’era giorno dopo giorno ccu cunzava, si fa per dire, un ipotetico tavolo di trissetti e briscola. Oggi la mensa sud dovrebbe funzionare solo ed esclusivamente per le ditte che operano in stabilimento, ma a quanto pare non ha l’afflusso che dovrebbe avere; intorno ad essa solo vuoto, erbacce e desolazione. LA FORESTERIA Negli anni sessanta è stato prodotto un film che fotografava, col 65% di verità, il fenomeno industriale nel siracusano di quegli anni, si trattava della pellicola “I Fidanzati” per la regia di Ermanno Olmi, che utilizzando attori sconosciuti e forze locali, narrava di un operaio specializzato del nord catapultato nella nostra realtà con la prospettiva di un buon avanzamento di carriera e quindi un’occasione da sfruttare per la futura vita sentimentale in odor di matrimonio. Non sto a raccontare il film, senz’altro da vedere dato che propone uno squarcio di vita vissuta che ci appartiene, di tanto in tanto la Tv nazionale ne propone la replica, ma per sottolineare l’importanza che aveva in quegli anni questo stabilimento per l’economia del territorio. La Foresteria ha scandito nel tempo un proporsi della classe impiegatizia nei confronti di quella operaia, e la sua chiusura coincide con l’abbattimento di quelle barriere cariche d’ipocrisia. La Foresteria era un edificio con camere affittate a prezzi convenientissimi ad impiegati dipendenti, con l’obbligo di non ricevere nessun estraneo; era anche munita di ristorante riservato soltanto agli impiegati, in seguito questo veto fu tolto e anche se la Foresteria non funzionava più da pensione, al salone ristorante potevano accedere tutti i dipendenti e ospiti autorizzati. Oggi tra i tanti ricordi che questa struttura si porta dietro, quello riferito al film I Fidanzati è sicuramente il più singolare. In una sequenza del film si vedono un gruppo d’impiegati uscire dalla Foresteria e salire su un pullman per recarsi al lavoro. Durante il tragitto, il buon Rizzato, presidente all’epoca del Dopolavoro e attore per caso, dice la sciagurata battuta imposta dal copione: “Questi siciliani per risparmiare mangiano pane e limone!” Apriti cielo e sprofondati terra! Il signor Rizzato, polentone puro, per almeno una settimana non uscì il naso dalla Foresteria. IL DOPOLAVORO Intorno al 1960, anno più anno meno, il vulcanico Rizzato, presidente del Dopolavoro, dovendo la squadra Sincat di pallacanestro disputare a Ragusa lo spareggio per la promozione in serie A, fece il giro di alcuni Bar della borgata siracusana contattando ragazzini disposti a tifare. Manco a dirlo, dalla via Malta, sede del Dopolavoro, partirono tre pullman pieni di tifo, ma soprattutto di gioia giovanile. Ad ogni ragazzo fu dato un sacchetto viveri e tra risate e battute varie si raggiunse la sorridente Ragusa. Sugli spalti quel giorno ci fu un tifo infernale ed incessante tramutato alla fine da un urlo di gioia incontenibile per la vittoria della squadra di pallacanestro Sincat e la conseguente promozione in serie A. Al ritorno in sede, il Rizzato offrì bibite a volontà per tutti quei ragazzini che avevano contribuito al conseguimento di un risultato mai più ripetuto; personalmente ricordo che a seguito di quella giornata, per una settimana un’influenza mi costrinse a letto ed il volume della mia voce era zero. Sotto la presidenza del Rizzato, il Dopolavoro ha girato a mille! Vedi squadra pallacanestro in serie A, meravigliose serate danzanti, compagnie teatrali sotto l’egida del Dopolavoro, campionati di calcio aziendali spettacolari, biblioteca fornitissima, lido estivo al sacramento, premi di poesia, incontri culturali etc. Oggi la sede di via Malta, che si era ridotta a sala da gioco per appassionati di ramino e carambola, non esiste più; al campo sportivo, a volte, si assiste a partite con protagonisti patetici, che non si vogliono arrendere agli anni che passano, e riescono a realizzare incontri del tipo partite del cuore; il lido estivo non c’è più da tempo, come si sono perse nella notte dei tempi le serate danzanti all’Asteria Bleu o altri ritrovi, dimenticati i premi poesia e incontri culturali. Quel Dopolavoro che riusciva a coinvolgere tantissimi lavoratori e famiglie non esiste più, se non nei ricordi di chi ha vissuto quegli anni che purtroppo difficilmente si ripeteranno. NATALE E CAPODANNO IN FABBRICA Già da molti anni non s’illumina più l’albero vicino gli spogliatoi CR, forse per motivi di sicurezza; peccato perché quell’albero illuminato dava un’aria di festa anche in una giornata lavorativa grigia. Da sempre gli elettricisti di stabilimento si sono prodigati per realizzare dei bellissimi alberi di Natale, che con le loro multicolori luci intermittenti davano un tocco gioioso ai vari posti di lavoro. Certamente un Capodanno trascorso in fabbrica non si dimentica facilmente, anche se qualcuno – che non ha provato questa esperienza – potrà storcere il naso. Da sempre tra i turnisti esiste un accordo mai stipulato da alcuno e cioè di non mancare al turno di Natale e Capodanno tranne casi straordinari, e alleggerire il più possibile il lavoro al terzo turno, per poter questi lavoratori festeggiare bene Natale e Capodanno in fabbrica, imprevisti permettendo. La mia unica esperienza risale al 31 dicembre 1970 quando effettuai il 3° turno all’Officina Meccanica 3. In portineria la vigilanza, su disposizione della Direzione, distribuì a tutti i lavoratori del 3° turno montante, un panettoncino e dieci sigarette sfuse. Il mai dimenticato capoturno Alastra, affettuosamente conosciuto come ‘u Zu Pippinu, aveva concesso a due componenti della squadra il giorno di ferie per poter trascorrere la serata con moglie e figli. Grande fu la sua sorpresa, e non solo sua, quando benché i due avessero le ferie firmate, alle 22.00 si trovò la squadra al completo! Nessuno di noi a distanza di anni, testimoni di quella bella e indimenticabile notte, potrà mai dimenticare le lacrime di gioia dell’Alastra; un capoturno tenero comu ‘u pani ‘i casa, che ci trattava con l’affetto di padre. VENUNU I FIMMINI Intorno al 1975, vennero assunte per legge, delle operaie che avrebbero effettuato i turni completi in reparto. Di colpo l’Azienda si trovò spiazzata, nei reparti di punto in bianco furono costruiti i servizi per le donne e relativi spogliatoi, nelle cabine degli impianti furono tolte le stampe delle donne nude e relativi giornali; i reparti si ingentilivano per la presenza in turno del personale femminile. Queste donne, a volte, tennero testa agli uomini nel lavoro, coprivano i turni, effettuavano straordinari, alcune erano sposate, altre avevano storie e altre ancora incontrarono in fabbrica il loro amore. Questo fenomeno durò all’incirca un quinquennio, poi ci fu chi si licenziò, chi se ne andò dietro incentivo e le rimanenti furono tutte sistemate in altri posti di lavoro lontano dagli impianti. Ancora oggi, queste ragazze entrate nella storia dello stabilimento, sono ricordate per quel tocco di magia che seppero dare nei vari reparti ove prestarono servizio. CONCLUSIONI La fine degli anni settanta, trova un certo lassismo nella classe lavoratrice, da troppe parti si sentiva dire: Chistu nun mi tocca! Nun è compitu miu! A mia ma ponu…, e stranamente l’Azienda non prendeva nessuna posizione, tutto scorreva liscio come l’olio e nessuno avrebbe mai ipotizzato che da lì a poco ci sarebbe stata la prima cassa integrazione. Venne puntualmente, imitando la FIAT di Torino che aveva dato il via; questa volta ai vari scioperi aderirono anche gl’impiegati pirchì si sintevano ‘i peri friddi. Tantissime assemblee, sfilata di sindaci, uomini politici, la MONTEDIPE (così frattanto si chiamava la fabbrica) aveva una bella fetta di lavoratori in cassa integrazione, in un certo senso l’Azienda si era liberata di molti “chistu nun mi tocca… nun è compitu miu… a mia ma ponu…” e si erano consumate delle vendette. Tanti appelli al Governo Regionale, picchetti dei cassaintegrati alle portinerie, poi a poco a poco tutto ritornò alla normalità, la cassa integrazione dovette essere accettata perché era attuata in tutta Italia e i lavoratori alle portinerie giorno dopo giorno diminuirono sino a scomparire; chi aveva l’arte e l’aveva messa da parte, come si suole dire, la tirò fuori e iniziò a lavorare in nero, ad alcuni la condizione del cassaintegrato stava benissimo. Altri lavoratori dietro incentivi in denaro, si licenziarono tentando fortuna nel commercio o nelle altre attività, a dir il vero solo pochi sono riusciti, i più che si sono improvvisati commercianti sono stati divorati dai pescecani di mestiere. Alla prima cassa integrazione, ne seguirono altre e altre ancora, e tutt’oggi si parla di autunno caldo con perdita di posti di lavoro; sono scomparse del tutto o ridimensionate al minimo le ditte che operavano in stabilimento con grandi forze di lavoratori: la GRANDIS, GECO MECCANICA, COSEDIN, NAVAL MECCANICA e tante, tante altre; basti pensare che in fabbrica operavano all’incirca diecimila persone, i posti di fumo era pieni così come gli autobus interni che circolavano con una certa frequenza per le strade dello stabilimento. Chi, come me, ha vissuto gli anni delle vacche grasse desidera che possa ritornare quel periodo florido; non fosse altro perché mai come ora in Sicilia occorrono tantissime buste paga per i ragazzi che non riescono ad inserirsi nel mondo del lavoro. La zona industriale priolese, rappresenta la speranza giovanile e la speranza è un sogno che non può e non deve morire, il mio augurio è quello che in un futuro prossimo questa fabbrica possa diventare il riscatto economico sociale di questo profondo sud. Armando Carruba

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