LA
GITA ALL’ETNA
Quannu
lu friddu s’infila dintra l’ossa e da Scala Greca si po’ viriri dda bedda
cartullina quali è Etna cca nivi, lu me’ pinzeru abbola quannu carusu
assicutavu gite domenicali ‘nta dda’ muntagna.
La
preparazione era un rito per noi ragazzini con le tasche eternamente vuote e
impossibilitati all’acquisto del vestiario adatto nei vari negozi
specializzati, pirchì comu dissi ‘u puddicinu ‘nta la nassa Unni maggiuri c’è minori cessa! Allora
si ci doveva adattare o rinunciare a quel divertimento che costituiva
l’incontro con il vulcano più alto d’Europa, un possibile approccio con la
ragazza tanto sognata guardata a vista o comunque trascorrere una domenica
bestiale.
Si
comprava il tutto nelle bancarelle al mercato in Ortigia ca vinnevunu ‘a robba
americana: un paio di calzoni appartenuti ad un marinaio statunitense che si
facevano stringere di sotto a tubo e cucire nelle estremità degli elastici in
modo da ben fissare il pantalone agli scarponi che erano quasi sempre quelli
dei campagnoli.
Un
bel paio di calzettoni di lana, corpetto della Marina Militare Italiana, un
altro maglione pesante, guanti e cappello cco’
giummu sempre di lana.
Per
completare l’opera, ossia per far notare agli altri che avevamo girato tutti i
monti del mondo, si compravano nelle bancarelle i bolli di stoffa da cucire sui
pantaloni o maglione o sullo zainetto ed erano del tipo: Monte Bianco – Cortina
d’Ampezzo – Sestriere etc.
Nello
zainetto il pranzo costituito da panini cca’ murtadella e acqua di fontana, con
una bottiglietta di liquore ad alta gradazione perché…non si sa mai!
Andavamo
a letto presto la sera antecedente la partenza, soprattutto perché
l’appuntamento era fissato per le ore 4,00 ‘o puzzu ‘ngigneri, ma nessuno
riusciva a prendere sonno cosicché ci radunavamo al piazzale Marconi ancora
assonnati.
L’autobus
cca funcia, uno dei residuati bellici, sbuffava nell’attesa come a borbottare
rimproveri ai ritardatari; un ultimo appello e…ccu c’è c’è! E ccu nun c’è…(nun si po’ scriviri).
Partenza
con cori e canti qualcuno suonava la chitarra o la fisarmonica e tra Ciuri
ciuri, Vitti na crozza, Sicilia e Quel mazzolin di fiori che viene dalla
montagna, intervallato da qualche barzelletta che anche se spinta era stata
rigorosamente ripulita, dopo aver macinato chilometri sulla vecchia strada
Siracusa Catania si arrivava alla meta tanto agognata.
Sulla
neve ci si spassava un mondo! Poi al ritorno la solita sosta in qualche
localino per fare quattro salti; difatti la gita non era tale se non c’era
questa pausa, e lì o si trovava il complessino sul posto oppure si ci
arrangiava con il mitico jubox o male che andava un mangiadischi portato per
ogni eventualità sfavorevole.
Il
ritorno era ancora una volta sottolineato da canti e sguardi che cercavano
conferme in altri sguardi; si effettuava una simpatica colletta per la mancia
all’autista che con pazienza e mestiere aveva accontentato tutti; e a tarda
sera l’arrivo ‘o puzzu ‘ngingnieri.
Gli
ultimi saluti e a gruppi ridendo e sparlando a casa mentre la luna e le stelle,
mute testimoni dei nostri sogni, in cielo a guardare.
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