Non v'è dubbio che T'abballu supira 'a panza è una minaccia e, nel contempo, un modo di dire in uso tra i malavitosi. Una volta, solo a sentirlo, per la paura faceva trimari 'u piddizzuni (prendere la tremarella) al povero diavolo a cui era rivolto. Lo intimidiva a tal punto da costringerlo a fare o a non fare ciò che gli si ordinava.
Non pensi però il lettore che le parole che ne compongono il testo siano frutto della fantasia traviata del malvivente che lo pronunciò per primo. Anche questo modo di dire, come tanti altri che abbiamo esaminato, ha una sua origine che, questa volta, ho appreso per puro caso.
Qualche anno fa, con un gruppo molto folto di persone interessate alla fitologia, mi trovavo a visitare il Parco botanico di Caiammari, in contrada Isola-Fanusa. Arrivati davanti ad un albero di addauru (dal latino LAURUM = alloro), l'allora assessore provinciale Paolino Uccello che, per l'occasione fungeva da guida naturalistica, con dovizia di particolari sotto il profilo ambientale, botanico, fitoterapeutico, storico e leggendario, ci raccontò l'origine più o meno presunta del detto T'abballu supira 'apanza che ruota proprio attorno all'alloro.
La buona reputazione di questo albero, goduta sin dall'antichità, è dovuta, oltre alle proprietà curative delle sue foglie e al fatto che non viene colpito dai fulmini, alla venerazione che ne ebbero gli antichi greci i quali lo consideravano sacro ad Apollo e a suo figlio Esculapio, dio della medicina.
Quando la medicina non aveva raggiunto i progressi di oggi, gli istinti mentali dell'uomo sottomettevano la ragione, e, per curare i loro malanni le persone si rivolgevano ad un guaritore che, via via, assunse nomi diversi, sciamano, stregone, mago, santone in italiano, maiaru, bballabballa in dialetto.
In occasione di quella visita Paolino Uccello raccontava che un tempo il guaritore faceva stendere per terra la persona che a lui si rivolgeva perché aveva forti dolori allo stomaco e poi iniziava il rito terapeutico. Gli cospargeva sulla pancia delle foglie di alloro e, poggiandovi sopra uno dopo l'altro i piedi, come se stesse per eseguire una specie di danza propiziatoria, pronunciava questo scongiuro che aveva la funzione di scacciare il malanno dal ventre del malato:
'U Signuruzzu ppi lu munnu ja (andava per il mondo) unni caminava tutti li cosi sanava.
Per il poveraccio ai dolori per il male di stomaco si aggiungevano quelli più forti provocati dai piedi del guaritore. La sofferenza doveva essere talmente insopportabile che, quello che avrebbe dovuto essere un rimedio si trasformava in una terrificante pena dell'inferno a cui, in seguito nessuno più volle sottoporsi preferendo tenersi l'originario mal di stomaco.
Fu l'atrocità di quel rito a far sì che successivamente il malavitoso ricorresse al minaccioso detto T'abballu supira 'a panza per imporre al povero diavolo di turno la propria volontà.
Quando la medicina divenne ufficialmente una scienza, probabilmente fu il ricordo ancora vivo di cure violente come questa a rendere riluttante qualche medico ad adottare rimedi radicali e dolorosi per sconfiggere il male. Nacque così, per contrapposizione, l'altro detto 'U mericupiatusu fa 'a chiaia virminusa che, in senso lato, vuol dire: "Il medico, che non ha coraggio di intervenire per non fare soffrire il malato, procura cancrena alla piaga, rendendola inguaribile".
Sino alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso chi non aveva denaro sufficiente per rivolgersi ai medici di professione, si affidava a dei guaritori che, soprattutto nei paesini di provincia, praticavano terapie tramandate dalla medicina popolare.
A Palazzolo Acreide esercitava abusivamente un certo Paolo Pinuccio, detto Massa ' Paulu, 'u Prizzaturi (massaro Paolo, lo stimatore) che curava in un primo tempo gli animali e poi le persone. A lui si rivolgevano soprattutto quei malati che non avevano ottenuto miglioramenti con la medicina ufficiale e speravano nella cura con le erbe.
Probabilmente fu la sfiducia nelle nostre strutture sanitarie a dare origine al detto popolare Ó spitali si cci va ppi mòriri o ppi dari 'mpurtanza ó mericu. Al medico che ostentava arie di cattedratico, mentre non valeva una cicca, a Licata veniva dato ironicamente l'epiteto di Dutturi di Salamanca che non vuol dire "originario della città spagnola di Salamanca", ma "essere mancante di sale" e quindi di sapere medico.
Altrove di un medico ignorante si diceva Bbonu ppi tuccari lu pusu a li cavaddi oppure Dutturi di nenti, mentre era definito Dutturi di quattru a mazzu quel medico saccente che presumeva di sapere tutto.
A Siracusa, come in tante altre parti della Sicilia, si diceva anche Quannu arriva l'ura nun cc 'è mericu né vintura che equivale a " Non c'è sapienza di medico o colpo di fortuna che possano scongiurare la morte".
Si diceva che massa'Paulu possedesse l’occhiu clinicu in quanto gli bastava dare uno sguardo al paziente per diagnosticargli la malattia per la quale aveva sempre la cura consistente in miscugli sgradevoli di varie erbe che crescevano nel suo terreno. I clienti, sempre più numerosi, lo pagavano in natura, olio, pasta, caffè e soprattutto stecche di quelle sigarette che lo avrebbero portato alla tomba.
A Canicattini Bagni invece era ritenuto "specialista delle ossa" un certo don Michele Bordonaro da tutti, compaesani e non, detto Pitruzzu. Durante la Prima guerra mondiale, combattendo in prima linea, aveva fatto di necessità virtù. Sui campi di battaglia imparò così bene l'arte ortopedica che, una volta tornato a casa, la mise a disposizione di chi gliela richiedeva.
Si racconta ancora oggi che, nella cura della sciatica, degli strappi mu-scolari, delle slogature, delle distorsioni, e delle fratture ossee, compisse veri e propri miracoli, per questo la sua fama varcò i confini di Canicattini facendo diventare suoi clienti anche numerosi siracusani.
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