Giuseppe Nicolosi Scandurra (1877 - 1966)
Lo chiamarono «il poeta-contadino ». Non scrisse mai né sapeva ben parlare in italiano: tutto il suo mondo letterario era dialetto siciliano; nei suoi volumi sono in dialetto anche le dediche, talvolta indirizzate alla direttrice della scuola comunale in cui egli era bidello, talvolta al proprietario del vigneto che egli zappava, potava, innestava. Imparò a leggere da solo, perché non aveva il denaro per pagarsi la scuola; scandiva, una sillaba dietro l'altra, le insegne dei negozi; giovanissimo componeva poesie e voleva trovare il mezzo per metterle nero su bianco; quel compitare da autodidatta integrale fu per lui una conquista insperata: gli faceva scoprire che c'era il modo di imparare a leggere e scrivere anche per un contadino, come lui, poverissimo. Fu «scoperto », letterariamente, da Villaroel, che nel '28 lo invitò a Milano e lo presentò a poeti e letterati. Compose alcune migliaia di poesie, sparse in diciannove volumi (molti dei quali arrivarono a esaurirsi). Visse a Catania, portava la cravatta a fiocco; amava inneggiare, come la maggior parte dei poeti vernacoli, agli affetti familiari e ai campi. Morì il 6 aprile 1966, dodici ore dopo la morte della moglie, nel momento stesso in cui la portavano al cimitero.
A LA SICILIA
Cantu li notti, l'arvi, li matini,
ccu tutti li so' sceni pitturischi,
li venti leggi, forti, caudi, frischi
l'ervi, li ciuri, l'orti, li giardini.
Li mali ccu li boni siritini,
fatichi, amuri, jochi viddanischi,
pasturi, armenti, cuppi, brogni, cischi,
canzuni a li luntani e a li vicini.
Echi sfriscianti e spersi prati prati
e tanti e tanti cosi campagnoli
di mia comu sù 'ntisi sù cantati.
O tu Sicilia, su sti versi accetti,
comu rosi, galofuri e vijoli
di li genti, li 'mpinci petti petti
Giuseppe Nicolosi Scandurra
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